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«Al cuore nero del mondo»

Mostra fotografica Vittore Buzzi al Centro San Fedele

 

Il «cuore di tenebra» dell’Africa qualcuno l’ha già descritto magistralmente oltre un secolo fa, puntando il dito contro il colonialismo che ha sfruttato e violentato le culture diverse. Al «cuore nero del mondo» ora è sceso Vittore Buzzi, anche lui con le vesti dell’occidentale che penetra un mondo misterioso, perché a tratti oscuro, ma certo affascinante.
«Cuore» perché il Centrafrica – lo rivela il nome stesso – si trova affettato dall’Equatore nel mezzo geografico del continente, e del mondo stesso infine: se è vero, com’è, che l’umanità ha mosso i primi veloci e guardinghi passi in quelle terre. Ma «cuore» nello stesso tempo in quanto materia pulsante di vita prepotente, così lontana dalle stanchezze manierate e virtuali dell’Europa. E poi «nero»: nero come il colore araldico dell’Africa, nero come l’oscurità di un mancato sviluppo che incupisce i destini di tantissimi, nero come il buco profondo in cui si smarriscono troppe nostre incomprensioni. Nero, eppure sempre cuore. Cuore, ma macchiato di nero.

Le foto di Buzzi restituiscono questo medesimo contrasto. Lui le ha scelte pacate, composte, quasi in posa: non le urlanti immagini della fame, delle violenze – ahimè tante volte vedute; questi scatti non muovono al pietismo. Sono persone (molte volte persino oggetti) contornate dai colori della modernità, ma nello stesso tempo velate da un’ombra inesorabile. Still life in cui le sfocature, i riflessi, le trasparenze – che sovente appaiono sugli sfondi – accentuano un’idea di domanda sospesa, anzi di attesa.
Probabilmente è questo che il fotoreporter ha colto, affondando il suo sguardo negli orizzonti di uno sperduto avamposto missionario di una piccola famiglia religiosa nel Paese tra i più poveri del mondo. Non disperazione né rassegnazione, nonostante i postumi di una guerra incomprensibile ai poveri e la pochezza ancestrale delle risorse per vivere, dolori che vestono ogni viso di un velo. Che però non basta a nascondere la domanda di vita, la dignità profonda, la speranza, persino la gioia risorgenti continuamente come germogli da ferite che noi forse reputeremmo intollerabili.

Vittore Buzzi ci vuole mostrare, cristallizzate nel fotogramma, le domande mute di un mondo che merita di più, e che vuole cambiare. «Piano piano», magari: quest’espressione i missionari laggiù gliel’hanno ripetuta tante e tante volte; però con la tenacia di ricominciare ogni volta senza darsi per vinti. Lui, del resto, ha collocato come guide e modelli davanti alla macchina fotografica e a quella di ripresa degli europei testardi e irremovibili, tipi che in trent’anni di fedeltà africana e senz’alcuna enfasi, con l’indispensabile cooperazione dei locali nonché di molti volontari anche italiani, hanno costruito una silenziosa ma concreta rivoluzione per un intero territorio: decine di scuolette di brousse, un dispensario-ospedale che è il migliore della zona, tante cooperative agricole e una «banca delle sementi», un centro d’avanguardia per l’assistenza domiciliare ai malati di Aids, pozzi, ponti, chiese, case… Risultati decisivi per l’intera regione del Nana Mambéré, dove, per esempio, oggi nessun bambino muore più di malaria.

Il reportage di Buzzi documenta anche questo, ma ha l’ambizione di andare oltre: e si vede. Dove? Non lo possono sapere ovviamente i tantissimi bambini ritratti, non lo sanno neppure gli occhi socchiusi dei vecchi: ma come ciascun umano, del resto. Ciò che traspare è l’umile sfida di un gruppetto di irriducibili, che hanno osato nonostante le evidenze; piano piano, il mondo può cambiare. Batte il cuore nero.

Al cuore nero del mondo

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