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«Comunità internazionali e tanti progetti: ecco il mio viaggio in Centrafrica»

di padre Piero Trameri

Nel mese di gennaio, su invito del superiore regionale padre Jean-Luc Morin, ho visitato le missioni dei padri betharramiti in Repubblica Centrafricana, dalle quali mancavo dal 2019. Rispetto alla mia ultima visita, nella capitale Bangui e nella città di Boaur  ho notato più fermento dal punto di vista economico; si vedono molte costruzioni, segno di un crescente sviluppo urbano; inoltre tra i due centri è stato anche asfaltato un tratto di pista che rende più agevole lo spostamento lungo quella tratta. La vita nei villaggi invece scorre secondo i ritmi che in questi anni i missionari hanno imparato a conoscere.

In generale le comunità betharramite soffrono la carenza di personale. I missionari italiani stanno invecchiando e, per andare avanti, ricorrono all’aiuto dei più giovani religiosi africani: per questo oggi le comunità centrafricane sono tutte internazionali. A Bangui, per esempio, padre Beniamino Gusmeroli vive con padre Armel Vabie e due giovani africani in ricerca vocazionale; a Bouar la parrocchia di Fatima è affidata a padre Narcisse Zaolo, primo betharamita centrafricano, e a fratel Hermann Bahi, ivoriano; mentre il Saint Michel, il centro per la cura di persone con Aids, vede impegnati l’italiano fratel Angelo Sala e padre Habib Yelouwassi, che è responsabile di due postulanti. Infine, a Niem – il primo insediamento betharramita in Centrafrica – si trovano padre Arialdo Urbani, patriarca e fondatore della missione, padre Tiziano Pozzi e il padre centrafricano Marie-Paulin Yarkai. La cifra internazionale rende le comunità cariche di entusiasmo ma crea anche qualche problema d’intesa, a fronte di diversi modi per affrontare i problemi.

Collaborare è una sfida ma un compito necessario, anche perché l’opera di evangelizzazione e i progetti in campo sono sempre tanti. Padre Beniamino ha in cantiere la costruzione di una nuova chiesa nel comune di Bimbo, alla periferia di Bangui, mentre segue le attività di una scuola in città e la pastorale di alcuni villaggi lungo il fiume Oubangui, raggiungibili con la moto o con la piroga a motore sul fiume. Anche io l’ho accompagnato in una di queste visite in piroga: mi ha emozionato scivolare sul pelo dell’acqua salutando le persone che si affollano sulle rive ma anche vedere la Caritas cittadina, gestita da laici, che prepara materiali da consegnare a chi vive in queste zone remote. A Bouar la parrocchia di Fatima sta ampliando la casa parrocchiale, già troppo piccola, e ha messo in piedi una piccola scuola di falegnameria per insegnare ai giovani il mestiere, anche grazie a una collaborazione con  i salesiani che si sono stabiliti molto vicino alla casa betharramita. Il Centro Saint Michel invece sta aspettando l’arrivo dalla Costa d’Avorio di un religioso neo ordinato che ha già fatto alcune esperienze estive in questa struttura: il lavoro è tanto, i pazienti in carico al Centro sono oltre mille; inoltre esiste un’unità mobile per fare prevenzione, sensibilizzazione e screening direttamente nei villaggi di brousse più lontani dalla città. Negli ultimi anni è stato aperto anche un laboratorio dentistico e un centro oftalmico. A Niem ho potuto parlare con il chirurgo Benjamin, che lavora nella nuova sala operatoria costruita a ridosso dell’ospedale. La sua è veramente una bella storia: proveniente da una delle prime scuole di villaggio messe in piedi dai missionari betharramiti, ha proseguito gli studi fino a frequentare l’università di Bangui e, dopo alcuni anni di tirocinio pratico, come si usa in Centrafrica, oggi è tornato nel villaggio ed è il chirurgo del blocco operatorio. Un segno di speranza che mostra che i semi gettati in questi 30 anni di missione germogliano e possono aiutare lo sviluppo e la promozione umana di questo Paese.

 

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